Anna Trapani
catalogo della mostra Varese Incontri, 1985

di Vitaliano Corbi

È evidente - e infatti è stata notata da tutti - la ricchezza dei significati impliciti nell’uso della tela ricamata che, da alcuni anni, è una caratteristica costante delle opere di Anna Trapani. Meno evidente è, forse, il nodo che tiene uniti questi significati, definendone l’ordine e la direzione. Certo a nessuno potrebbe venire seriamente la voglia, in questa occasione, di risalire le innumerevoli strade che portano alla nascita del manufatto, alla ricerca di quel nodo. Un tessuto di lino ricamato dell’Ottocento è un prodotto da cui la Storia e la Società, se appena provocate, possono sventagliarci addosso una serie terrificante di dati documentari: dalla condizione operaia negli opifici a quella femminile e domestica delle ricamatrici, dalla manzoniana santità del matrimonio (e della dote) alla moda e all’arredamento, dagli scambi tra artigianato e arte colta a quelli tra civili urbana c contadina ecc. E tra gli eccetera, con un po’ d’attenzione, si possono sentir risuonare anche i canti delle piantagioni di lino e i versi crepuscolari sul bacio che non fu dato e sul corredo che non fu usato. Il problema, come ha fatto intendere con garbata chiarezza Rossana Bossaglia in una sua presentazione di qualche anno fa, deve essere necessariamente ricondotto al momento, non meno complesso, ma ben altrimenti circoscritto nel tempo e annodato, per così dire, intorno a una precisa intenzionalità espressiva, in cui queste tele hanno fatto il loro ingresso nella ricerca artistica di Anna Trapani. Non è stato il momento dell’ora zero, ma si può suppone che a decidere quali segni del passato, quali tracce della storia di queste tele dovessero superare il nuovo confine siano state soprattutto la sensibilità e l’intelligenza critica dell’artista: una delicata patina di memorie femminili, di un’adolescenza rivissuta, forse, come reale, ma anche esteticamente vagheggiata frammenti figurali e decorativi che danno il via a temi, iconografici e stilistici, liberamente variati; soprattutto quel bianco del lino (appena ingiallito o esaltato dalla leggera imprimitura del gesso) che può invitare a un gioco fitto, suggestivo e pericoloso, persino, per la sua estrema mobilità, di evocazioni e risonanze affettive, ma che vale, infine, essenzialmente come piano da cui affiora l’immagine pittorica. Ma, proprio in rapporto alla globalità dell’immagine, va notato che la superficie del tessuto ricamato svolge un duplice molo: quello tradizionale, di supporto, sia pure tutt’altro che anonimo, dell’intervento pittorico e quello di oggetto prelevato dalla realtà e, per quanto largamente manipolato dall’artista, subito riconoscibile nella sua natura originaria. A parte le considerazioni, pertinenti e interessanti, che su questo punto sono state già sviluppate da altri, deve essere sottolineato che l’una e l’altra funzione convivono strettamente nelle opere di Anna Trapani, creando situazioni di ambiguità percettiva - nel senso della Gestalpsychologie - e introducendo, con l’alternarsi delle “letture”, un elemento dinamico: quando la tela viene percepita come supporto, il motivo del ricamo, e ogni altra caratteristica materiale del tessuto, appare completamente riassorbito nella configurazione complessiva dell’ immagine pittorica; quando al contrario l’attenzione viene attratta dagli elementi costruttivi della tela, e scatta il riconoscimento dell’oggetto, allora il ricamo viene prepotentemente in primo piano e diventa “figura”, nucleo principale intorno al quale si distribuisce l’intero campo percettivo.
Anche negli “Autoritratta”, dove il contesto dell’opera si presenta molto più complesso, con sottilissime implicazioni psicologiche, attivate dalla proposta di un dialogo fuori del tempo, tra i due autoritratti, quello di un celebre pittore e quello della Trapani, anche qui il duplice ruolo della tela ricamata, con le conseguenze cui prima s’accennava, risulta decisivo nell’organizzazione dell’ immagine, poiché esso fa irrompere in questa la percezione del tempo, che dissolve definitivamente ogni possibile “effetto aura”. In tal modo si creano le condizioni, se non le garanzie, dell’autenticità di quel dialogo, trasferito dalla dimensione aulica e immobile della Storia e dell’Arte in quella del presente, dove appunto l’ambiguità della percezione, con il suo ritmo alterno, scandisce lo scorrere del tempo.