Anna Trapani

di Rossana Bossaglia

Com’è difficile, ambiguo, ossessivo, problematico, rischioso infine il rapporto dell’artista con l’arte, quando l’artista al femminile si propone di non eludere questa condizione, ma di accettarla criticamente, e per farlo dunque si situa fuori della mischia, a ogni poco tuttavia coinvolta, con la rabbia di conoscere troppe cose, e troppo a fondo, per potersene dichiarare estranea, con la delicatezza che la trattiene dall’essere didascalica, o sentenziosa, o faziosa.
Il nuovo lavoro di Anna Trapani si può leggere in molti modi, e proverò a farlo, ascoltando la voce dell’artista (Anna teorizza con eleganza la propria produzione, rifugge a evidenza il ruolo del pittore viscerale che pretende di operare nella spinta di imprecise emozioni: ruolo tornato fastidiosamente di moda); ma anche prescindendo dalla sua poetica conclamata e riallacciandomi a considerazioni diverse.
L’operazione diretta dell’artista è intanto un programmatico recupero della cultura materiale; ricercando e trattando elaborati ricami in bianco, testimonianza dell’antico tradizionale lavoro femminile, Anna li propone come documento, esibendoli alle prime scontate reazioni del riguardante: ammirazione per il virtuosismo della ricamatrice, pena per la fatica che vi è connessa, piacere nel contatto con oggetti concretamente godibili, convenzionali convenzionali considerazioni moralistiche sul silenzioso anonimato che costituisce la base del patrimonio artigianale. Immediatamente però ella assume queste tele ricamate come opera propria; riutilizzandole, insieme le cita, le riscrive e ne rovescia il significato.
Mi è occorso varie volte negli ultimi anni di occuparmi di donne che hanno scelto di operare artisticamente riprendendo in mano il filo - fuor di metafora - del lavoro femminile, e mimando quella lunga consuetudine con il ripeterne gli schemi tecnici, i modi, anche le figurazioni, a fini polemicamente opposti: cioè quelli di personalizzare l’indifferenziato, di trasformare la condanna in giuoco, di farne un espediente per la denuncia dei ruoli sottoposti - e sommessi - per l’affermazione di libere espressività. Queste operazioni, in molti casi fantasiose e brillanti, tuttavia rischiano spesso di ridurre semplicisticamente il problema, appiattendone i connotati sociali e rimanendo a mezzo tra il giuoco, la protesta e il fervorino. Anna non cade in questa trappola, sa che l’operazione artistica si giustifica là dove c’è linguisticamente invenzione, e dove i significati non sono espliciti e unidirezionali; così commenta e glossa il ricamo ripassandovi sopra e intorno con mano leggera, imitandone le peculiarità di segno - il tratto frammentato, segmentato, del punto che non consente continuità di modulazione: non quindi il ductus libera della mano che scorre sulla tela secondo il collaudato cliché dell’ispirato operare artistico, bensì una tecnica, mi si passi il bisticcio, puntigliosa, metodica -; e insieme coinvolgendolo in figurazioni nuove, rendendolo parte di composizioni che si allungano sul dolce campo della tela bianca, convenientemente irrigidita. Sicché, a un certo momento il ricamo non è che il pretesto per un’opera che poco ha a che vedere con la tematica del tradizionale lavoro femminile; oppure, quando il disegno di Anna traccia l’immagine povera di una tela ripiegata, siamo di fronte all’azzeramento: la preziosa iperbolica fatica del ricamo ottocentesco annullata da un gesto che è, insieme, di schiva segretezza (<<riponiamo il tesoro nell’armadio>>) e di negazione (<<questo tesoro non significa nulla>>).
La lettura dell’intervento di Anna sul materiale scelto per la sua operazione è così duplice: non aver semplicemente fatto un ricamo in pittura, ma averlo direttamente utilizzato, può significare amore e rispetto per una materia nobilitata dal tempo e dall’uso; ma vuol dire anche significare intenzione di annullarne la vitalità storica inserendolo in un nuovo contesto espressivo; in una parola, Anna non tanto commenta sottovoce il manufatto antico, ma gli dà voce piegandolo a una nuova significazione artistica: l’arte è nel suo lavoro, non in quello che le serve da supporto.
E tuttavia, la dialettica permane: quel tanto di intellettuale, persino intellettualistico, che sta nella contrapposizione compiaciuta dei segni e nella dimostrazione di come il segno cambi continuamente referente a seconda del contesto; e sta nel presupposto concettuale che l’arte è ad ogni modo, e in prima istanza, un’operazione critica; si accompagna a una nitidezza e gentilezza d’invenzione godute in se stesse. L’atteggiamento psicologico di base è una sorta di dolente irritata ironia per tanta profusione di bravura artigianale - la perizia, la pazienza, dietro le quali non sono soltanto le costrizioni di un ruolo obbligato, ma un tipo di gratificazione che alla mentalità d’oggi appare ripugnante -. Sopra questo livello però si dispiega una gioia che pesca in più profonde zone dello spirito ed emerge facendosi figura. Ahimè, il critico non può adoperare, una volta ancora, che l’abusata e pericolosa parola <<creatività>>, pur sapendo di mettere una volta ancora il dito nella piaga - e nel mistero - dell’attività estetica; tanto meglio per lui se in questo caso può anche dire che la creatività è condotta verso il porto dell’espressione dall’intelligenza e dalla cultura.

Rossana Bossaglia